Sandro Allegrini – Venanti e il Potere: vantata alterità
Franco Venanti è da sempre Franco Venanti è da sempre un “non allineato” nei confronti del potere costituito, sia esso civile, militare o religioso: più che di- sprezzarlo, se lo sente distante per naturale idiosincrasia e tende a marcare questa lontananza. Egli è intimamente contestatore, addirittura rivoluzionario, per portato caratteriale, oltre che per scelte artistiche ed esistenziali, anarcoidi quanto si vuole, ma sempre improntate al massimo rigore.
Venanti non riesce a riconoscersi in un “partito”, in un gruppo strutturato, proprio in ragione della sua forte individualità, non incasellabile, non riducibile a categorie preconfezionate. Non a caso, è stato alternativamente “accusato” di essere di sinistra, come di destra.
è forse corretto affermare che Venanti ha operato una personalissima sintesi tra valori, ideologie e culture. Della “sinistra” ha preso il senso egalitario dell’individuo, inculcatogli dall’alta lezione di moralità impartita dal padre; della destra ha recupe- rato il rispetto per i valori della tradizione e della cultura; del cristianesimo ha colto una sorta di manzoniana “poetica degli umili”, unita alla massima considerazione verso il prossimo; di suo ha aggiunto una formidabile propensione alla tolleranza.
A ciò si aggiunga una matrice culturale intrisa di convinto umanesimo, un anti- fascismo respirato con l’educazione familiare, un antibolscevismo di fondo, libero comunque da qualsiasi forma di pregiudizio.
Da Artista, con la sua capacità di vedere le cose “dall’alto”, Franco Venanti è sempre attento a cogliere il senso dell’insieme, a leggere la realtà nella sua globale e problematica complessità. Egli non ama districarsi tra i tortuosi sentieri della politica operante, con le sue minuzie tartufesche, le spicce furberie, le macchinose alchimie di equilibri e di “correnti”.
Facendo proprio il detto di Wilde, L’arte è la più forte manifestazione d’individualismo che il mondo conosca, egli non s’intruppa, rifiuta l’omologazione ideologica e culturale, non si sente “massa” ma “individuo” e non è disposto a rinunciare alla propria assoluta “unicità”.
La posizione che assume in merito è chiara e coerente. Egli si spinge oltre il Ma- chiavelli, foscolianamente interpretato, nel senso che non si limita a mostrare “di che lacrime grondi e di che sangue” il potere dei moderni “Principi”, ma si diverte a colpir- lo con l’arma più semplice e più micidiale che l’intelligenza umana possa concepire: una spiazzante ironia che getta nel ridicolo, attirando insieme la risata e il disprezzo.
Questo ci conferma il “ciclo napoleonico”, ove la prosopopea trionfalistica si demistifica nel corpo sfatto dell’imperatore, traguardato nella sua misera fisicità, che ne smonta l’aneddotica arroganza e la proverbiale supponenza (L’imperatore).
Così la boria e la vuota “solennità” si riducono alla mediocrità quando, con patetica lussuria, il Corso (o forse un suo squallido sodale) insegue una fanciulla “facile”, tra le labirintiche siepi di un giardino (Dafne imperiale), quando siede, in- gordo, al Grande banchetto o quando, infine, fa la faccia inutilmente accigliata, con un ridicolo e tragico fischietto (Il Generale si diverte).
è questo il prezzo che Venanti gli fa pagare per la “rivoluzione tradita” e per il sostanziale rifiuto delle idee morali e politiche, identificabili come ragioni di una sofferta e giustificata rivolta, che pure lasciò una scia di sangue per le vie della Francia.
Ma, al di là delle ideologie, l’excursus storico che attraversa l’opera di Venanti accomuna, in univoca e sprezzante valutazione, periodi e poteri che comprendono, indifferentemente, la Rivoluzione d’Ottobre o il Nazismo, le repressioni sud ameri- cane, operate da comandanti crudeli e felloni, “colonnelli” di ieri e di oggi: fenomeni parimenti riconducibili al comune denominatore della violenza dell’uomo sull’uomo.
Venanti non crede alle “magnifiche sorti e progressive” della storia, non la vede come magistra vitae, ma fa propria la tesi vichiana di ciclicità, ripresa con ironico pessimismo da Paul Morand: La storia, come un idiota, meccanicamente si ripete.
L’Artista perugino non fa dunque fatica a riconoscersi in Montale: La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta (La storia, da “Satura”).
Il Nostro condivide l’idea Goethiana per cui Chi è nell’errore compensa con la vio- lenza ciò che gli manca in forza e verità, mentre egli continua a credere nei valori irri- nunciabili della libertà, della democrazia, della tolleranza. Dunque Venanti detesta parimenti i roghi dei libri – siano essi nazisti, fascisti, comunisti o dell’Inquisizione – disprezza i “campi” e le violenze naziste, aborre le stragi comunque etichettate, ha orrore dei gulag, come ha in odio ogni mediocre “arte di regime”.
Così, anche oltre gli eventi, la storia si fa strumento che consente di studiare e conoscere l’Umanità e, forse, d’indagarne la sorte ultima con meditato pessimismo e malinconica amarezza: in definitiva, per Venanti, come per Borges, La storia uni- versale è la storia di alcune metafore, accomunando nei termini “storia” e “rivoluzione” tutte le battaglie e i contrasti che avvengono fuori e dentro di noi, nel momento “pubblico” non meno che in quello “privato”.
Venanti ha sempre amato le Rivoluzioni – compreso il Sessantotto – per la ventata di contestazione del vecchio e del formale con cui hanno travolto le istituzioni marce e le idee logorate, ma disapprova la violenza, detesta i manicheismi, demistifica la presunzione di chi presume di possedere la verità.
Così, non a caso, si ritrova una sera a discutere – con amici intellettuali transalpini – di “rivoluzione tradita”, ovvero dei fermenti di autentica contestazione dei quali si è appropriata una sola parte, “normalizzando” tutto, riassorbendo il dissenso, cooptando le frange più accese, per farne una nuova classe dirigente, ancora più smaliziata e avida di potere, così in Francia come in Italia.
Il Sessantotto è stato, insomma, per Venanti, quello che, con le parole di Julien Benda – riferite ad altro contesto – continueremo a chiamare un nuovo tradimento dei chierici, nel momento in cui gli intellettuali sono venuti meno ad un impegno culturale nobile e disinteressato, per accedere alle “stanze dei bottoni”, senza por- tare alcun autentico beneficio alla società civile, anzi, sulla spinta di un mero ed irritante opportunismo.
Ma Venanti è un rivoluzionario reale, che identifica le motivazioni della rivolta nella sostanza e non nella forma del nostro essere uomini, come Camus che ebbe a scrivere Mi ribello, dunque siamo. L’Artista, infatti, confida nell’uomo perché pensa che chi non crede nell’essere umano non è un vero rivoluzionario.
La sua critica al potere e al sistema non appare mai strumentale, viziata da ostilità ideologiche preconcette (infatti egli ricorda, ancora con Camus, che Le idee sono il contrario del pensiero), ma è una contestazione che fa parte di un semplice ragiona- mento, di un’osservazione analitica e non preconcetta della realtà.
Da ultimo, una parola circa l’impegno politico che l’Artista assunse nella muni- cipalità perugina negli anni 95/99.
Il disprezzo per gli affarismi, la delusione per la navigazione di piccolo cabotaggio, la contestazione del profilo “basso” tenuto dagli amministratori locali – portati a vedere l’arte e la cultura come un inutile e scomodo accessorio – si tradussero in altrettanti motivi di amarezza per l’Artista, il quale sedeva sui banchi del Consi- glio Comunale con lo spirito di servizio e il disinteresse personale che dovrebbero sempre animare quanti, con qualche retorica di linguaggio – che fa riferimento a ormai logore ideologie – vengono chiamati “rappresentanti del popolo”.
Come “ricompensa” per un contributo dialettico sempre condito di salace ironia, il Potere intollerante e cinico – evidentemente disturbato nei suoi interessi dagli interventi “pepati” dell’Artista – non esitò a mascherarsi dietro anonimi writers per far rappresentare, da un prezzolato “imbrattatore”, un murale che effigiava Franco Venanti e ne didascalizzava il ritratto con epiteti offensivi.
Venanti porta le immagini e la memoria di quell’episodio, ormai ampiamente metabolizzato, come una medaglia: è stato forse l’unico politico – dopo i dirigenti cinesi nei dazebao studenteschi, al tempo della rivoluzione culturale – ad avere l’onore di una gigantografia di quel tipo.
D’altronde, la tendenza a non intrupparsi e a conservare orgogliosamente la propria individualità è una caratteristica propria delle personalità più forti ed è indice di autonomia intellettuale, di rispetto di sé, di apertura mentale.
Non a caso, Venanti ha un giorno affermato che la mente è come il paracadute: funziona solo quando è aperta.
Estratto da
60 ANNI IN MOSTRA 1
Franco Venanti & 46 maestri dell’arte contemporanea umbro-toscani
A cura di: Eugenio Giannì