Franco Bozzi – L’enigma Venanti
Questa è la storia di una interpretazione; ma è, al tempo stesso, la storia di un’amicizia e di uno straordinario rapporto umano.
Quando, su un invito dell’autore, mi avvicinai per la prima volta all’opera pit- torica di Franco Venanti, non avevo nel mio bagaglio culturale gli strumenti della critica d’arte, ma solo quelli della critica storica. Naturalmente sapevo, dalla mia esperienza di studio, che i prodotti dell’ingegno o della fantasia contribuiscono anch’essi, e fortemente, a fornirci il quadro d’insieme di una esaustiva rappresenta- zione sociale. Che cosa sono gli affreschi senesi di Ambrogio Lorenzetti sugli Effetti del Buono e del Cattivo Governo se non un manifesto politico che ci propone, fino al dettaglio, l’armonia delle molteplici forme di vita – l’artigianato, il commercio, lo svago – di una ben ordinata città medioevale, e della sua proiezione nella campagna circostante; e specularmente ci fa balenare il disordine, l’abbandono, la paura che si impossessano della comunità quando i reggitori sono corrotti o incapaci? Che cosa richiamano alla nostra mente le atmosfere evocate dagli impressionisti – le ballerine a lezione di Degas, il bar alle Folies-Bergère di Manet, il palco a teatro di Renoir, il gioco a rimpiattino della Morisot – se non i mille volti di Parigi, capitale fascinosa ed incosciente della belle époque? E sapevo altresì che un’opera d’arte possiede, oltre alla valenza estetica che ne rappresenta l’essenzialità, un portato testimoniale sul costume, il gusto, la cultura che l’artista ha il dono di ritrarre d’istinto, e lo storico deve saper decifrare al pari di una fonte orale, di un documento diplomatico, di una carta d’archivio. Di questi, e di altri materiali iconografici mi ero abbondantemente servito nel mio lavoro, come del resto avevo attinto a piene mani dalla ricca simbologia della Rivoluzione francese, del Risorgimento nazionale, del movimento operaio.
Fu perciò un passaggio dolce quello da me compiuto in occasione della mostra che Venanti intitolò Seduzioni e sedizioni, e che attraverso le opere composte dal 980 al 995 riproponeva, in forma di figura, l’alternarsi fra ribellioni e jacque- ries da un lato, repressioni e restaurazioni dall’altro; insomma il rincorrersi dei corsi e ricorsi storici di cui aveva parlato il Vico nella sua Scienza nuova. Nel catalogo da me curato cercai di ripercorrere il cammino compiuto dall’artista nella distruzione creatrice dei secoli della modernità; il suo faticoso procedere fra generose utopie e devastanti disillusioni, slanci e riflussi, monumenti e macerie. Ciò che egli aveva intravisto coi pennelli, io cercavo di districare coi concetti. E riassumevo:
La trilogia della rivoluzione, che idealmente conchiude questa stagione venantiana, ci offre un esempio di catastrofe, intesa in senso etimologico come scioglimento del dramma. Gremiscono le grandi tele, frutto della maturità dell’artista, gli strateghi, i cospiratori, i condottieri, coloro che in un certo stadio dell’evoluzione sociale hanno incarnato la forza propulsiva e dirompente della ragione, gli individui che Hegel defini- va cosmico-storici, quelli che hanno vissuto (o sono stati vissuti?) senza capire il senso del loro passaggio, i carnefici e le vittime, gli agonisti e gli spettatori. Alla Rivoluzione francese subentra l’Ottobre rosso, all’assalto bolscevico al Palazzo d’Inverno le guerre di liberazione coloniali. Fra l’una e l’altre di queste sante esplosioni di collera, fra l’uno e l’altro dies irae, la bigia dantesca palude del rifiuto e dell’accidia.
Saint-Simon, agli inizi dell’Ottocento (il secolo della secolarizzazione, della positività, dello scientismo, in sintesi della fiducia in quelle che con amaro sarca- smo il Leopardi della Ginestra chiamava, dell’umana gente, “le magnifiche sorti e progressive”) elaborò una filosofia della storia avente come perno l’alternanza ciclica fra epoche organiche, fondate sulla gerarchia e sull’ordine, ed epoche critiche, fondate sulla contestazione e sul conflitto. Esempio delle prime fu il Medioevo militare e religioso, irrigidito nel sistema feudale e amalgamato dalla Chiesa. Pure, al suo interno si muovevano le forze liberali che – latenti e sot- terranee per un lungo periodo – esplosero all’improvviso, non limitando la loro azione all’affrancamento degli individui dal giogo servile e alla trasformazione dei sudditi in cittadini, ma demolendo completamente le strutture dell’ancien régime, giacché il radere al suolo l’esistente era condizione indispensabile per re-innal- zare l’edificio sociale. Le nuove e solide fondamenta per l’epoca organica che si andava profilando, dopo i giorni della Rivoluzione e del Terrore, sarebbero state il lavoro, la ricerca, la produzione, la solidarietà. Ma Saint-Simon era permeato dallo spirito dell’industrialismo, e ne condivideva l’ottimismo di fondo. Senza ottimismo, del resto, non ci sarebbero l’azzardo, il rischio, l’intrapresa che costi- tuiscono il nerbo del capitalismo borghese. Il pensiero di Venanti è lontano mille miglia da questo ottimismo fideistico; esso è semmai un esempio di pessimismo razionale; ed oggi, specialmente oggi, in presenza di una così acuta crisi che in- veste tanto la sfera etica – di cui a buon diritto l’estetica può essere considerata una sublimazione – quanto la struttura economica dell’Occidente (solo pochi anni or sono, ricordate? Fukuyama, adeguando ai nostri tempi le incrollabili certezze del positivismo ottocentesco, e auto-convintosi della superiorità del mercato e della liberaldemocrazia su ogni altro tipo di regime economico e politico, aveva proclamato addirittura la fine della storia); oggi, torno a ripetere, chi potrebbe liquidare una visione cruda e disincantata della realtà quale quella che il nostro amico Franco ci ha proposto, con il ciclo dei Nuovi barbari, come la bizzarria di un artista, o come un eccesso di umor nero?
A Mantova, la città del sommo Mantegna dove presentai le nuove opere, sostenni che esse erano da considerarsi lo sviluppo logico e conseguente di quella pittura storica (non a caso, nel frattempo, la mostra Seduzioni e sedizioni continuava girare per l’Italia: io la presentai nel 995 a L’Aquila) intrapresa anni prima con l’analisi del rapporto simbiotico fra rivoluzione e restaurazione. Anche questa della ritornante barbarie era un’idea vichiana. Nella città desertificata dal cattivo governo, avvilita dal prevalere dell’istinto sulla ragione, gli uomini regredisco- no alla condizione ferina, si combattono l’un l’altro, si rinselvatichiscono e si consumano fino a quando, ridotti alla semplicità primitiva, non siano in grado di riprendere il cammino della civiltà. Ma oltre al concetto di “ricorso”, che il filosofo napoletano inserisce in un disegno provvidenzialistico, Venanti attinge ad altre sorgenti: come le grandi storie – del Gibbon, del Mommsen, del Gregorovius – sull’ascesa dell’Impero romano, e sulla sua decadenza e caduta. I barbari si stanziarono entro i confini dell’Impero, portarono le loro usanze, crearono i loro regni. Infine, l’Urbe medesima fu messa a sacco dai Goti. Dal suo rifugio nel deserto, quel san Gerolamo che tante volte i pittori hanno ritratto intento a comporre la Vulgata – o in uno studiolo riccamente arredato, o in una caverna senz’altro ornamento che un teschio – appresa la notizia esclamava: “In Roma e con Roma, il mondo intero è perito”.
Venanti ha sovente la stessa impressione, che Roma e il mondo stiano per perire: e la comunica angosciato agli amici. è sgomento per tutto ciò che gli sembra estraneo, ed anzi potenzialmente ostile, agli ambienti da cui ha attinto, in tanti anni (sessanta!) di impegno creativo, protezione e sicurezza. Anche la sua personalissima interpretazione del concetto di entropia (intesa come una forza centrifuga che tutto sommuove, e scaglia, e dissolve, impedendo qualsiasi terraferma e qualsiasi ancoraggio) si inscrive nelle paure e nelle ipocondrie che – dicono coloro i quali lo hanno conosciuto fanciullo – lo accompagnano fin dalla più tenera età. Io, che l’ho conosciuto invece quando entrambi eravamo giunti all’età matura, e ho avuto con lui, o meglio con la sua opera, un approccio di tipo critico, ho cercato di decifrare il senso di tale filosofia di vita. E credo di avere trovato il bandolo di un simile perenne turbamento, di una siffatta irrisolta inquietudine: per Venanti la condizione umana è un dilemma che si dipana fra il corno entropico (lo stravolgimento) e il corno catastrofico (il rovesciamento). In forma più disperante lo aveva detto Schopenhauer: l’esistenza è una sorta di pendolo che oscilla fra il dolore e la noia. Ma è interessante notare che per lo strenuo avversario dell’ottimismo idealistico la via della liberazione passava attraverso l’arte.
Ora l’entropia, come Venanti la intende, rientra a buon diritto in questa visione complessiva. Che è la visione di un mondo non statico, ma dinamico; non placido, ma convulso; non terso e luminoso, ma ricco di contrasti e chiaroscuri. Il mondo assoggettato alla dura legge di Polemos, che di tutte le cose è padre e di tutte re, e gli uni rende schiavi e gli altri liberi, gli uni rivela uomini e gli altri dei, secondo il detto di Eraclito. Un mondo che in virtù della contesa ruota su se stesso, si dilata, si spancia. La forza centrifuga getta all’esterno oggetti, situazioni, persone. E lo sguardo abbrac- cia nel vortice una Summa profana, nella quale galleggiano – come in una stazione spaziale sospesa – le preziosità e le cianfrusaglie di cui Franco ama circondarsi, le sue impressioni, i suoi ricordi.
C’è dunque un filo nero che collega i momenti salienti della produzione venantiana, un tema ricorrente e sempre variato negli arpeggi e nelle tonalità, come il motivo conduttore di una sinfonia orchestrata non con le note, sibbene coi colori. Questo filo, più che ricorrere alla categoria di maniera del pessimismo (l’ottimismo, che produce il realismo di propaganda, è fuori discussione nel discorso di Franco, per sua naturale vocazione narciso, anarchico e bastian contrario) lo definirei, per le ragioni che sopra ho esposto, entropico/catastrofico. Ma un pensiero dominante non è necessariamente un pensiero unico. Stando a contatto con l’uomo/artista si scoprono i risvolti caratteriali, la molteplicità degli interessi, gli sprazzi di buon umore e perfino un tocco di sana goliardia. Così, negli anni, mi è capitato di collaborare non solo con il Venanti pittore, ma con il Venanti inesauribile e fantasioso novellatore di una Perugia che vive soltanto ormai nel suo rimpianto; e con il Venanti satirico, che si fa beffe dei potenti, dei conformismi e delle mode; e col Venanti che si è rimesso il cappello a ciondoli della sua scapestrata gioventù, e i tanti altri cappelli della sua collezione, sintomi visibili del mutare degli stati d’animo, degli abiti mentali, delle sfaccettature di una poliedrica personalità. E col Venanti presidente dell’associazione che prende il nome da un grande perugino, attore e storico e coltivatore per il suo gusto e consumo di qualche vite e di qualche olivo, che è come dire dei prodotti tipici della civiltà mediterranea: intendo dire Luigi Bonazzi. Nell’ambito della quale associazione abbiamo organizzato conferenze e gite, conviviali autogestite e balli di carnevale, edito un “Cucinario”, indetto un “Sofà delle Muse”, e insomma ricreato alla nostra maniera uno di quei salotti che non erano soltanto, come comunemente si crede, sfoggio di mondanità, ma un modo piacevole e intelligente di “passare il tempo”.
Se poi dovessi segnalare la via d’uscita a quelle frequenti cadute nella malinconia e nella depressione, a quelle irrazionali paure per il freddo anche in periodo di solleone, a quel terrore per malattie vere o immaginarie che ricorda la miglior tradizione della commedia dell’arte, lo indicherei nel culto della bellezza femminile. Come altra volta ho scritto,
molti dei suoi pensieri e molti dei suoi colori Venanti li ha dedicati alla donna, di cui ha saputo cogliere le raffinate arti di seduzione, le pose sinuose e sensuali, la forza irresistibile e dirompente di attrazione esercitata sull’uomo. Dietro l’arieggiare di trasparenze e velature egli ci ha reso l’enigmatica figura della dark lady shakespearia- na, laicizzazione della bruna fanciulla del Cantico dei cantici che a sua volta rivive nella fascinosa nigredo della zingara di Caravaggio e nella Salomè di Klimt; attingendo alle paure ancestrali dell’immaginario maschile ci ha descritto una donna che da preda si fa predatrice, come la Diana del Parmigianino che aizza i cani contro Atteone trasformato in cervo, della donna che si vendica della violenza subita, come la Giuditta dell’Arte- misia che decapita Oloferne; riproponendo reminiscenze classiche e riecheggiando ipastiches simbolisti di Moreau e Puvis de Chavannes, le visioni surreali di Delvaux o di Max Ernst, ci presenta la Circe ammaliatrice, sfinge chimera sirena, capace di infiniti richiami, inganni, metamorfosi.
Mi è sembrato giusto, in occasione dei sessant’anni di attività che oggi cele- briamo, citare alcuni passi dei numerosi saggi che ho dedicato all’uomo/artista: senza, ed è giusto che io dica anche questo, decifrare fino in fondo l’enigma Venanti. Ma forse bene così, perché è nella natura misteriosa ed insondabile dell’arte che risiede il segreto della suggestione e del godimento.
Estratto da
60 ANNI IN MOSTRA 1
Franco Venanti & 46 maestri dell’arte contemporanea umbro-toscani
A cura di: Eugenio Giannì