Massimo Duranti – Venanti al digitale

Ne era passato di tempo dalla mia ultima visita allo studio di Venanti, in via Bruschi, l’ombelico del centro storico di Perugia, che ricordavo gozzanianamente affollato non solo di pittura, ma di ogni possibile cimelio simbolico che Franco colleziona da una vita. Quello studio, presso il quale sono tornato per annotare elementi freschi da tessere per una doverosa testimonianza per la mostra celebrativa dei sessanta anni di simbiosi fra l’artista e la pittura, quello studio – dicevo – mi è sembrato più piccolo. In realtà, è solo il tempo che ha stratificato l’affollamento di dipinti e oggetti da collezione. C’era anche una cortese assistente che lavorava con abilità anche alla plasticazione di gessi di mani, braccia e altre parti anatomiche.

Per fortuna che l’artista si è allargato al piano stradale in un suggestivo e grande spazio che ospitava una galleria d’arte. Lì lavora ai grandi formati, ai quali si dedica in verità anche nello studio arroccato. Venanti è sempre elegantissimo nell’unicità dei suoi abiti e sempre arguto, polemico; anche un po’ ipocondriaco, e dunque si è ritrovato bene a chiacchierare con me.

In quello studio sempre più denso di memorie e di esiti pittorici, l’assistente si destreggia per mostrare i quadri che estrae da ogni possibile e impossibile pertugio. Una situazione che mi ha fatto tornare in mente la visita a Mosca, quasi venti anni fa, in un freddo pomeriggio di gennaio, nelle tre stanze della casa di una delle più importanti collezioniste di arte sovietica della seconda metà del Novecento, dove un assistente-giocoliere sfilava da pile di quadri pagine e pagine di grande arte ancora semiclandestina. Anche Venanti è una sorta di semiclandestino e un grande accumula- tore. Soprattutto è un battitore libero, un anarchico delle tendenze artistiche; ma è un gran pittore di umori ed amori, di guerre e di poca pace, di distruzioni ed entropie: di questi temi predilige umori ed amori e la pace, ma è costretto a raccontare anche tutto il resto, compreso il potere, nelle sue varie forme ed abiti, che ufficialmente contesta, ma che francamente lo affascina. Quello che lo spaventa è la distruzione, morale ed ambientale, e la minaccia di un’entropia diffusa. E però continua a stemperare il tutto con l’ironia, l’autoironia spesso, che rivela direttamente nelle sue affollate narrazioni con il suo autoritratto, più o meno nascosto. Ma non c’è solo ironia ed autoironia nelle sue vecchie e nuove tele, bensì un signorile e un po’ snobbistico rifugiarsi nel suo bel mondo popolato di belle signore dai grandi cappelli dalle piume svolazzanti, dalle lunghe collane di perle, figure velate da nuvole di fumo di sigaretta che esco- no dai preziosi e lunghi bocchini d’avorio aspirati avidamente dalle giovani donne.

Dipinti che da sempre provocano uno spaesamento spazio-temporale del quale Venanti è obiettivamente sempre compiaciuto, costruite con una pittura figurale sapiente tessuta di velature, di brani omessi, di ambienti e atmosfere Bell’Epoque come vissuti, più che ricostruiti.

Rifugio ed esorcizzazione della guerra, del male (che è sempre contrapposto simbolicamente al bene) e del potere prepotente, come dicevo. Ma tutto questo è stato già ampiamente analizzato e scritto, ed è quello che pensavo di rivivere splendidamente, ma anacronisticamente cristallizzato nello studio di via Bruschi, dopo la mia lunga assenza da quel luogo di bella pittura, ma un po’ volutamente, anzi ostentatamente, datata.

E invece no! Mi sono dovuto pesantemente ricredere. Il Venanti d’antan ha trovato, senza scalfire la sua intangibile coerenza, sottolineature di poetica e scatti non casuali di linguaggio e di tecniche. Ha scoperto il digitale, che non è solo un modo diverso di presentare un lavoro, ma per lui è una vera e propria nuova elaborazione dicevo. Se le sue narrazioni tradizionali erano affollate di figure, anche di caos entropico dicevamo, la stesura era unica, tutt’al più ricca di velature. Oggi l’artista realizza una prima versione del suo narrare, epico soprattutto, ma non esclusivamente, una sorta di scenario, ma non necessariamente scarno, che fa stampare in digitale su materiale compatto sul quale poi opera una nuova compilazione pittorica che aggiunge motivi, tonalità e nuove suggestioni all’originale digitalizzato. Sembra, ma i segreti del mestiere debbono rimanere un po’ tali, che il processo continui anche con una seconda stampa e un terzo intervento pittorico. Un’operazione modernissima ed anche antichissima, penso alle sovrapposi- zioni di affreschi nei secoli passati, la cui riscoperta successiva desta oggi tanto interesse. Anche Venanti, nelle successive compilazioni, sembra riportare segni dei linguaggi che nel tempo ha praticato, ma non con una sintesi, bensì con stratificazioni-giacimenti.

Non posso infine esimermi dall’annotare un’altra “novità” nella pittura di Franco: dei bei ritratti delle sue donne rigorosamente in bianco e nero. Il paradosso del contrasto fra il digitale che consente di manipolare una gamma infinita di colori e il ricorso all’anacronistico bianco e nero. Gettata la pellicola in bianco e nero, poi quella a colori, la fotografia è oggi tutta in una minuscola scheda da modificare a piacimento, ma la stampa in bianco e nero non è anacronistica, bensì affascinante, come questi nudi venantiani che non avevo mai visto.

Sessanta anni passati molto bene con la pittura che nella maturità trova ancora Venanti pronto a nuovi, sorprendenti stimoli creativi e tecnologici. Auguri Franco!

Parigi, ottobre 2008

 

Estratto da
60 ANNI IN MOSTRA 1
Franco Venanti & 46 maestri dell’arte contemporanea umbro-toscani
A cura di: Eugenio Giannì