Mirko Santanicchia – Venanti, il maestro, la bottega
“Sì come piccolo membro essercitante nell’arte di dipintoria (la corporazione dei pittori a Firenze), io Cennino d’Andrea Cennini da Colle Val d’Elsa nato, fui informato nella detta arte dodici anni da Agnolo di Taddeo da Firenze (Agnolo Gaddi), mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre (Taddeo Gaddi); il quale suo padre fu bat- tezzato da Giotto e fu suo discepolo anni ventiquattro”. Così scriveva Cennino Cennini, erano i primissimi anni del XV secolo, in apertura de “Il Libro dell’Arte”, forse il più celebre trattato medievale di tecniche artistiche. è un vero manifesto del sen- timento e del valore della Bottega trecentesca, come luogo della trasmissione dei saperi. Quei saperi che servono a chi dell’arte fa un “mestiere”, nel senso più alto del termine. Franco Venanti fa il pittore, lo fa da oltre sessant’anni, e continua a farlo soprattutto quando, come oggi, il termine suona trapassato.
I maestri del XIV o XV secolo avevano dei garzoni, e qualcuno (non fatevi ingannare perché porta i tacchi, pantaloni aderenti e camicette scollate!) se ne vede anche nella sua bottega. Quest’ultima, labirintica e piena di ogni cosa, farebbe invidia a Rembrandt, del quale i suoi contemporanei raccontavano quanto amasse collezionare antiche armature, vecchi strumenti, acconciature, una quantità di preziose stoffe ricamate e molto altro: “Visitava spesso i luoghi de’ pubblici incanti: e quivi faceva procaccio di abiti di usanze vecchie e dimesse, purché gli fossero paruti bizzarri e pittoreschi: e quegli poi, tuttoché talvolta fossero stati pieni d’immondezza, appiccava alle mura del suo studio, fra le belle galanterie che pure si dilettava di possedere: come sarebbe a dire ogni sorta di armi antiche e moderne, come frecce, alabarde, daghe, sciabole, coltelli e simili: quantità innumerevoli di squisiti disegni, di stampe e medaglie, ed ogni altra cosa ch’egli credeva poter giammai bisognare ad un pittore” (F. Baldinucci, 68).
In una bottega medievale, accanto al maestro, avremmo visto poi diversi allievi più o meno promettenti ai quali insegnare i segreti dell’arte. Venanti ne ha avuti e ne ha, e a giudicare da come questi “discepoli” parlano del maestro (basti vedere il sito www.bottegavenanti.com) è fuori dubbio che vena a vena, sillaba a sillaba, ha saputo trasmettergli quella passione per il suo lavoro della quale non puoi non accorgerti a contatto con l’uomo Venanti. Quell’uomo artista che vede, nelle sue ultime opere, la realtà di oggi come un “treno” fuori controllo lanciato a tutta velocità contro ogni aspetto della civiltà, sia essa alta, fino alla classica, o massificata, quella slogan- dipendente. Una modernità un po’ malata che tuttavia finisce per scegliere come supporto fisico per i suoi lavori recenti, elaborando e montando prove di stampa pubblicitaria, che poi in buona parte cela, esorcizza, coprendole con la materia pittorica, cui affida il nucleo concettuale del quadro. In questo, nel suo voler essere dentro i fatti, da burbero elegante, capace e compiaciuto di esprimersi coi colori, con la parola e con la penna, sveste i panni del maestro-artigiano trecentesco per indos- sare quelli dell’artista-intellettuale come si configurò a partire solo dal Cinquecento.
Quello dei cenacoli, perché è la dimensione dell’intelligenza, della condivisione delle idee (buone), delle esperienze e dei percorsi (giusti anche se diversi) che Venanti sembra voler additare come l’unica dimensione possibile, e pare affermarlo anche scegliendo qui di ripercorrere la sua carriera assieme ad amici-colleghi e allievi.
Un gesto che ti aspetti, da chi, in 60 anni di pennelli, ha cercato e cerca di leggere la realtà, contromano e con quella nota “pessimista” e “nostalgica” che spesso lo contraddistingue, ma agendo sempre da militante della vita.
Perugia, ottobre 2008
Estratto da
60 ANNI IN MOSTRA 1
Franco Venanti & 46 maestri dell’arte contemporanea umbro-toscani
A cura di: Eugenio Giannì